La primavera scorsa ho espresso il desiderio di fare questa mostra vedendo i tre nuovi ambienti della Galleria Stein di Torino appena ultimati. Le aperture che immettono successivamente nei tre locali sono centrate sulla stessa dirittura, creando una sequenza prospettica.
Ho visto in una di queste aperture la tipica dimensione dei miei quadri specchianti, cioè 125 x 230 cm, e ho immaginato una superficie specchiante posta sulla parete della stanza di fondo, in modo tale da continuare, virtualmente, la sfilata di aperture e di stanze. Prima di ora non avevo mai trovato il motivo per esporre una lamiera specchiante sola e senza altro intervento. Questa opportunità la trovo qui, proprio per la particolare sequenza di ambienti e di aperture.
Nei miei quadri specchianti c’è un fenomeno costante: il rapporto tra l’immagine statica, fissata da me, e le immagini dinamiche del rispecchiamento. In questo caso l’immagine statica è spinta fino ai bordi del quadro, dove il perimetro rappresenta la sagoma delle aperture che lo procedono fisicamente, e che proseguono nel riflesso.
Ora, su questa realizzazione potrei dire tante cose, come ad esempio che questo quadro non può essere trasportato altrove senza ritornare ad essere un banale specchio; che questo quadro magnetizza tutto lo spazio della galleria immobilizzandolo, ma in virtù del fatto che la galleria immobilizza lo specchio per la durata di un mese di mostra. Potrei continuare parlando dello spettatore e ipotizzare un concetto sull’immobilità in cui egli stesso si verrebbe a trovare, anche muovendosi, quando si rendesse conto che la sua relazione col fenomeno in cui è immesso è solo di registrazione. Che il suo punto di vista, rispetto al quadro, non conta, perché ogni punto degli ambienti è già stato considerato in prospettiva. Ma io vorrei focalizzare l’attenzione su questo particolare: le porte sono tre, il riflesso le raddoppia e sono sette.
È recente la scoperta scientifica che: tutti i fenomeni si possono verificare nella loro specularità eccetto uno, che non rispetta questa legge.
Se con gli strumenti dell’arte si realizza una scoperta, questa non è mai a dimensione microscopica o macroscopica, questa è sempre a dimensione umana.
LE STANZE, PARTE SECONDA
Ho già scritto in altre occasioni che i miei quadri specchianti sono irriproducibili. Cioè non sono trasferibili in altro mezzo che il loro stesso, infatti la riproduzione annulla la dinamica che è la loro essenza. Lo stesso direi per questa mostra de “Le Stanze” in cui ritengo che il solo mezzo esatto di registrazione e di documentazione sia l’occhio vivo di chi la percorre fisicamente. Lo spettatore avanza camminando e venendo dalla luce che penetra dall’ingresso e che procede attenuandosi di stanza in stanza.
L’esperienza del visitatore consiste nel giungere ad un passo dallo specchio, nella stanza più buia e scoprirsi in esso così piatto contro la luce dell’uscita da cui era entrato, quasi che l’ultimo passo potesse vederlo appiattito sulla superficie specchiante, senza più corpo né riflesso. Ma l’irriproducibilità di questa esperienza sarà evidenziata ne “Le Stanze, parte seconda” in cui lo spettatore vedrà la mostra proprio sotto forma di riproduzione.
Infatti attraverso la prima apertura, ora stampata a grandezza naturale in una fotografia posta sull’apertura stessa, noi vediamo la riproduzione dello spazio che avevamo percorso precedentemente.
L’osservatore si renderà conto che adesso lo specchio è stato preso in trappola dalla macchina fotografica, la quale lo ha costretto a riprodurre definitivamente “Le Stanze”.
Che le stanze vere sono passate ora nella virtualità, poiché sono divenute impercorribili, dietro alla loro immagine fotografica che si presenta adesso come l’unico dato tangibile. Che l’impatto contro la piattezza attuale del soggetto in cui eravamo entrati prima, liberi di percorrerne una metà, ci rende forse più sensibili alla nostra precedente esperienza.
Ma io oltre a qualsiasi osservazione o suggestione vorrei indicare un terzo momento: quello seguente le mostre, cioè la pubblicazione.
Volendo divulgare col mezzo della stampa l’immagine delle operazioni fatte, ci accorgiamo che una medesima fotografia può documentare indifferentemente tanto la prima che la seconda mostra. In una ricerca ogni dato è prezioso. Perciò non deve sfuggire che, rivoltando un media ad uso dell’espressione creativa, esso, oltre a rendersi utile, dichiara anche la sua limitatezza, la sua fragilità e la sua precarietà.
Dal 1964 mi muovo tra mezzi diversi, operando sempre una modificazione dell’uso convenzionale di essi. Ognuno di questi, nella mia ricerca, viene rivolto a determinare e definire il peso e la forza del concetto artistico. Io non faccio coincidere la mia ambizione con l’adesione smisurata alle voci che solo i mass-media sono il messaggio di oggi.
E questo è sufficiente per riuscire ad usare anche questi stessi media come motori di altri messaggi.
LE STANZE, NUMERO TRE
Padre, figlio e creatività
Ogni uomo è figlio del figlio, del figlio, del figlio e reca in sé il padre del padre, del padre, del padre, del padre.
Su ogni porzione di muro che sovrasta ciascuna apertura tra le stanze ho posto innanzi tutto la parola figlio poiché è dal punto di vista del figlio che io guardo l’opera. Essa si realizza qui, come abbiamo già potuto verificare, a partire dalla prima soglia.
La parola figlio sta scritta al di sopra di ogni entrata ripetendosi fino alla soglia che porta oltre l’ultima stanza. Ma questa volta cade l’illusione che il riflesso dello specchio prosegua semplicemente la sfilata di aperture e di stanze, perché nel riflesso sarà la parola padre a proseguire di stanza in stanza. Il riflesso non ci dà mai la sua stessa parte, ma la parte opposta.
Così noi abbiamo, in virtù di quella settima soglia, che io chiamo il punto creativo, la possibilità di vedere sia la nostra andata, che il nostro ritorno. Ma io direi ancora, a proposito di questa mostra, che non possiamo considerarci interamente padri, prima di avere percorso fino in fondo la strada di figli.
LE STANZE, ATTO QUARTO
Lo sviluppo di questa ricerca all’interno de “Le Stanze” e delle dodici mostre previste, si delinea secondo una logica propria dello spazio, del tempo e della mia presenza verificatrice. Il momento in cui sto scrivendo, ore 16 del 16 gennaio 1976, segna il trapasso dalla terza alla quarta mostra, nella tradizionale sequenza dei numeri.
Il tre è composto dalla parità del due (padre e figlio) che si riflettono nel punto dispari, centrale (specchio).
Il quattro è pari e non rivela la disparità, nel quattro il punto centrale in cui si verificano i punti opposti da origine ad una croce, poiché è attraversato non più da una linea di proiezione, ma da due, che formano quattro angoli uguali. I quattro punti si trovano ora come alle estremità di due specchi che si intersecano, ogni punto si proietta di striscio sulla linea della superficie specchiante, anziché batterci sopra.
Non è utile in questa mostra lasciare esposto lo specchio, poiché semmai non basterebbe una sola superficie. Inoltre questa simmetria della parità ci impedirebbe la verifica ottica del nostro doppio deviando lo sguardo sui due punti laterali che rappresentano la larghezza dello specchio che ci sta di fronte, mentre la nostra immagine riflessa si configurerebbe all’estremità opposta di un altro specchio, che vedremo soltanto di coltello e che avrebbe il nostro stesso spessore, così come ha lo spessore di un punto.
Quindi otticamente vedremmo solo le due dimensioni: ma dopo l’esperienza della terza, possiamo immaginare la quarta.
Lo spostamento che noi compiamo da un punto all’altro, tra le estremità della croce, disegna un quadrato in cui i lati diventano più o meno lunghi a seconda che noi arriviamo con maggiore o minore velocità da un punto all’altro. Col minimo di velocità abbiamo il massimo di spazio e con il massimo di velocità arriviamo ai quattro punti che aderiscono fisicamente a quello centrale, ancora nascondendolo.
Per questa ragione la mostra numero 4 non può che essere “II tempo” che noi impieghiamo, o che impiegano i nostri strumenti per giungere da un punto all’altro de “Le Stanze”. Nella mostra, i termini di tempo sono esasperati, cioè spinti oltre la dinamica senza immaginazione che riveste il luogo. Ma l’immaginazione qui si presenta contemporaneamente alla sua spiegazione.
Ho caricato di memoria il futuro e questa memoria si scarica automaticamente ad ogni attimo che entra nel passato, mentre gli strumenti che segnano meccanicamente il tempo non muovono oltre il loro stesso meccanismo.
LE STANZE, QUINTA MOSTRA
I quattro mesi di mostra già realizzati sono il tratto di viaggio nel tempo che io ho percorso finora a bordo del veicolo “Le Stanze” dall’ottobre dell’anno scorso. Come per un missile che viaggi nel vuoto interstellare, ogni mostra si materializza similmente ad un getto di gas contro cui si appoggia un secondo, un terzo getto di gas e così via per consentire lo spostamento della macchina. Così l’indagine continua anche nei meccanismi che fanno procedere il pensiero. Infatti ognuno di questi scritti precede la realizzazione fisica della mostra di cui parla e segue il momento in cui è stata immaginata e decisa.
Ogni scritto entra funzionalmente a far parte dell’opera, poiché le sue parole correggono la rotta dell’immaginazione, mentre ogni mostra corregge la rotta di ogni scritto.
Io parlai, a proposito della mostra precedente, dell’immagine di una croce composta dalle diagonali di un quadrato che configurerebbe uno spazio le cui dimensioni sarebbero percepibili relativamente alla dinamica del tempo.
Legai la quarta mostra alla quarta dimensione, ma non descrissi il lavoro perché trattandosi di un’esperienza d’immaginazione, spiegata nel ribaltamento della memoria, non volevo che proprio l’immaginazione si manifestasse nello spettatore fuori dal luogo e dal contesto che io avevo previsto per l’operazione. Questo lo dico perché ci si renda conto che per me la pagina scritta non è che una parte del motore e che non può sostituire nessun altro ingranaggio. Nella quinta mostra la singolarità e la centralità sono protagoniste. Le dimensioni variano a seconda dell’espansione o della contrazione dei volumi da o verso quel centro in cui convergono tutte le diagonali.
Così come un cubo può avere qualsiasi dimensione, mentre ha sempre lo stesso centro, le stanze ora si contraggono e si espandono fisicamente intorno al loro punto centrale.
LA SESTA MOSTRA DELLE STANZE
La sesta mostra de “Le Stanze” potrebbe essere detta delle “Gemelle”. Questa mostra è vista stando dalla parte del padre, il quale produce nei figli la dilatazione del suo raggio espressivo. Le “Gemelle” infatti raddoppiano il numero tre di “Padre, figlio e creatività”. Ma il vero titolo di questa mostra dovrebbe essere “L’allontanamento”. Il padre si allontana dai figli quanto essi si allontanano da lui.
Il saluto è il simbolo di questo distacco. Il padre allontanandosi vede l’immagine dei figli rimpicciolire e, oltre un certo punto, scomparire. Ma in realtà i figli non rimpiccioliscono e non scompaiono, essi mantengono altrove la propria naturale dimensione.
Una cellula si divide in due occhi che si guardano, essi si allontanano dal punto centrale che li univa. L’occhio che sta di fronte, allontanandosi, si trasforma da oggetto in immagine e comincia a rimpicciolire per lasciar posto all’intero universo delle immagini. Mentre un occhio rimane da questa parte, l’altro occhio dall’altra parte gli proietta l’universo.
Questi due occhi sono, ora, uno all’ingresso e l’altro al fondo delle stanze. Il numero due è la parità che raddoppia la disparità delle tre stanze, per giungere al sei. La mostra numero due capovolgeva la realtà in virtuale e la virtualità in reale. Ora nella sesta mostra il raddoppio delle stanze avviene dividendo i due fenomeni, reale e virtuale, come se anche loro entrassero nel meccanismo della nostra prospettiva ottica. Così la riproduzione rinuncia alla sostituzione totale della galleria, come lo spazio vero accoglie in sé la riproduzione.
In questa operazione le Gemelle che salutano, dal fondo della galleria, sono portate in primo piano alla misura che l’occhio fotografico ha registrato in distanza. Attraverso queste misure noi vediamo le “Gemelle” riprodotte a grandezza naturale in fondo alla galleria vera e propria. Così sarà ora il nostro occhio a ridurre le loro dimensioni alle stesse misure del primo piano fotografico.
La prospettiva, percorrendo l’andata e il ritorno delle tre stanze, mantiene costanti le dimensioni ai due poli opposti.
IL NUMERO SETTE DELLE STANZE
Il numero sette lo leggiamo per la seconda volta.
L’avevamo già trovato nella prima mostra quando era servito all’individuazione dell’uno, cioè del singolare, del non sdoppiato.
Nella storia de “Le Stanze”, superando la sesta mostra, si supera il limite intermedio delle dodici parti che suddividono questa esperienza. Il numero sette significa che io sto scrivendo la prima di quelle altre sei pagine che si poseranno, idealmente, sulle corrispettive precedenti per chiudere il mio testo de “Le Stanze”. Qual è la differenza tra la prima e la settima mostra? La settima è come la prima, ma intesa nel suo rispecchiamento.
Nella prima lo specchio era disposto ad imitare le sei aperture delle stanze, tre reali e tre riflesse, nella settima mostra saranno le sei aperture delle stanze sia reali che riflesse ad imitare lo specchio.
Io, tra queste due mostre che si rispecchiano, mi riconosco come punto creativo.
Realizzerò questa settima mostra rompendo un angolo dello specchio che avrò messo di nuovo in fondo alle stanze. Applicherò del materiale murario alle aperture in modo da dare al loro vuoto la forma attuale dello specchio.
Così queste aperture si presenteranno finte sia di qua che di là dallo specchio, mentre esso si presenterà nella forma reale.
IL NUMERO OTTO DELLE STANZE
Non mi dedicherei, per questa ottava mostra, a rilevarne il ribaltamento su quelle precedenti, tranne che per evidenziare la sua direzione nello sviluppo dei segni di parità.
In questa, il positivo e il negativo, così come il pieno e il vuoto, si intrecciano senza permetterci di visualizzare il punto di trapasso tra realtà ed immagine, che io identifico con lo specchio.
Così, intrecciando la visione pensata a quella fisica, lo sguardo può partire tanto dall’apertura d’ingresso, quanto dalla parete di fondo al di là delle tre aperture.
Questa visione può passare indifferentemente attraverso lo spazio vuoto.
L’immagine da me presentata è quella di un pieno, corrispondente alle dimensioni della prima apertura, ma visto in prospettiva stando dall’altra parte delle stanze.
Questa prospettiva del pieno si introduce nella prospettiva del vuoto che io vedo da questa parte delle stanze. La somma risultante dalla conta dei pieni e dei vuoti è il numero otto.
LE STANZE, NOVE
Non ho mai visitato mia madre al cimitero.
Mi sarebbe parso di fare una cosa strana, non capita.
Dante salda col numero nove gli anelli perfetti che, nella Commedia, rappresentano il suo peregrinare nel mondo degli inferi.
La mia nona mostra ne “Le Stanze” è la visita agli inferi. Ma il suo titolo è “L’avvicinamento”.
Nella sesta, le figlie si allontanano dal padre, mentre qui è la madre che si avvicina al figlio.
Dante non visita gli inferi entrandovi realmente, ma portandone i simboli sulle pagine della sua opera.
Così la mia visita si fermerà alla prima entrata de “Le Stanze”, mentre la lapide che sigilla il mondo in cui ora vive mia madre sarà posata sul muro di fondo della galleria.
Questa lapide si presenterà come una soglia virtuale, che separa due forme di una stessa realtà.
IL DECIMO MOMENTO È QUELLO DELLE STANZE REALI
LE STANZE: CAPITOLO UNDICESIMO
II sogno che ho fatto la prima notte in cui ho dormito a Venezia, quest’anno, era una sequenza di stanze in stile barocco. Durante questo sogno ho acquisito un momento di lucida coscienza e, scrutando bene le immagini, mi sono accorto che gli ambienti si articolavano con assoluta coerenza stilistica, fin nei più minuti particolari. Senza indecisioni, senza incertezze né interruzioni; mentre non sarebbe stato altrettanto facile per me descrivere o disegnare con la stessa precisione quegli stessi ambienti.
Così mi sono reso conto che anche il più ignorante degli uomini può sognare in perfetto stile, come una macchina fotografica. Ma a questo sogno si è aggiunta la visita ad alcuni interni di case veneziane, barocche, dove ho ritrovato la stessa perfezione di immagine.
Anche qui nessuna parte di nessun muro è stata lasciata priva di quell’intervento coerente e costante che forma lo stile.
Questi ambienti reali espongono fisicamente il sogno unitario di chi li ha immaginati. “Il trasferimento” è il titolo di questo undicesimo capitolo.
Venendo a Venezia le stanze si sono ricoperte di sogni barocchi che io fisicizzo ora trasferendone la visione sulle pagine di questa rivista. [“La Città di Riga”, edizione La Nuova Foglio, Pollenza (Macerata)].
Un rettangolo bianco, come interruzione del sogno, interrompe l’undicesima immagine.
I muri bianchi de “Le Stanze” di Torino fanno da supporto ideale alla realtà attuale della carta.
Nel mese di settembre del 1976 è stata spedita dalla Galleria Stein di Torino ad ogni destinatario delle undici precedenti paginette informative una pagina stampata completamente in nero e senza alcuna parola scritta, come annuncio e contemporaneamente come realizzazione della dodicesima mostra.
Photo credit: Pierluigi Di Pietro (Archivio di Cittadellarte)