La speculazione
Quando un uomo si accorge di avere due vite, una astratta in cui sta la sua mente e una concreta, in cui sta pure la sua mente, o finisce come il pazzo che, per paura, nasconde una delle sue due vite recitando l’altra, o come l’artista che non ha paura e le rischia tutte e due.
L’uomo ha sempre tentato lo sdoppiamento di se stesso per cercare di conoscersi. Il riconoscere la propria immagine nello stagno d’acqua come nello specchio, è forse una delle prime vere allucinazioni a cui l’uomo è andato incontro. Una parte della sua mente è rimasta appiccicata a quella riproduzione di se stesso. Lo sdoppiamento si è utilizzato nel tempo in maniera sempre più sistematica e sempre più convinta. La mente ha costruito la rappresentazione sulla base del proprio riflesso. E l’arte è diventata una delle specialità di questa rappresentazione.
Il personaggio umano ha cominciato a fissare sul riflesso un punto strategico per la misurazione dell’universo. Non accontentandosi più della prima allucinazione di se stesso, si è convinto di poter sdoppiare l’universo intero per conoscerlo. La matematica si è formata accorgendosi che se stessi più un altro poteva fare due, e che se stessi meno un altro faceva uno. Ma all’inizio la scuola è stata dura; non come si fa oggi con i bambini a cui si nasconde una delle due mele dietro la schiena per mostrare che ce n’è solo più una. All’inizio, “meno uno” voleva dire che uno dei due era morto, che la madre, il padre o il fratello tanto cari, che facevano due con la propria persona, erano stati sottratti alla vita.
Quindi l’esperienza fatta in rapporto alla vita e alla morte ha dato in astratto nell’addizione un segno positivo e nella sottrazione un segno negativo. Poi l’intelligenza ha complicato questi segni in moltiplicazioni e divisioni, in una serie di allucinazioni sempre più maestose, e ogni cosa della vita si è schierata nella mente con due possibilità estreme e contrarie, positive e negative. Può apparire paradossale, ma oggi si proibisce la droga, quando la nostra civiltà stessa è il frutto di una mastodontica allucinazione; ma forse si ha paura che la droga possa costituire oggi un rispecchiamento all’inverso e che perciò si possa smontare tutto quanto.
Comunque l’uomo, misurando l’universo a partire dalla sua diretta esperienza di vita e di morte, ha creato il bene e il male; alla luce del sole ha detto bianco, al buio della notte ha detto nero. E sempre rimanendo al centro ha creato le prospettive, i punti di vista e i punti di fuga del mondo all’altezza del suo occhio, press’a poco a un metro e sessanta dalla crosta terrestre, e dal quel punto ha creato l’alto e il basso. Passato e futuro, distante e vicino, profondo e superficiale, vero e falso, singolare e multiplo, soggettivo e oggettivo, statico e dinamico, sono alcuni esempi della sfera di antinomie che dai primi uomini ad oggi si è proporzionalmente espansa e ingigantita intorno all’essere umano come frutto della sua mente. Il contrasto fra le due estreme metà di ogni proposta e ogni valutazione è il mondo che l’uomo oggi abita mentalmente e fisicamente.
Quando la mia necessità di comprensione si è affacciata alla vita, ho istintivamente identificato tutti i contrasti nel sistema di sdoppiare ogni cosa. E guardando all’arte ho sentito la forte oscillazione a cui essa mi costringeva tra una parte mentale e astratta e una parte concreta e fisica. Ed ho individuato nel mezzo rappresentativo i due poli in contrasto e attrazione reciproca: la mia presenza letterale proposta dallo specchio e la mia presenza intellettuale proposta dalla mia pittura. Queste mie due presenze erano le due vite che strappandomi in due mi richiamavano con urgenza alla loro unificazione.
Quando io ho incominciato a dipingere, l’arte d’avanguardia era astratta. Si stava spostando completamente sulla seconda vita, quella riflessa, perché essa pareva diventata così vera da far credere che fosse ormai l’unica vivibile. E Pollock aveva tentato di viverla realmente. Ogni suo gesto, con tutta la volontà di vivere, si trasferiva con violenza ad ogni istante sulla tela. Al punto che non sapeva più che farsene della vita fisica. Nemmeno la pazzia poteva salvarlo, perché come artista non poteva recitare. Non c’era che la morte.
Il mio modo di rischiare le due vite è stata la sovrapposizione diretta della mia immagine mia immagine dipinta alla mia riflessa. I miei due personaggi hanno smesso di recitare il dramma del trapasso della propria vita a favore della vita dell’altro, diventando una cosa sola. Così l’essere e il non essere, la domanda e la risposta, il dubbio e la certezza e tutte le altre antinomie, sono precipitate le une sulle altre a formare un solo elemento. La cultura proiettata dallo specchio si precipita sullo specchio e crea la nuova allucinazione, che è il rispecchiamento all’inverso. Tutto il sistema della rappresentazione si è ribaltato, come rovesciare una manica. Esso, attraverso tutto l’arco dei riverberi (astratto riflesso dalla vita e vita riflessa dall’astratto) applicato letteralmente in questi quadri, è arrivato al rispecchiamento di se stesso, come un cane che corre dietro alla sua coda. Lo spettacolo di questi quadri sta nel trovarsi di fronte a un veicolo velocissimo, capace di percorrere in un solo istante un viaggio di andata e ritorno dal passato remoto ad oggi.
L’essere
Portare l’arte ai bordi della vita per verificare l’intero sistema in cui entrambe si muovevano è stato lo scopo e il risultato dei miei quadri specchianti. Dopo questo non rimane che fare la scelta: o tornare nel sistema dello sdoppiamento e dei conflitti con una mostruosa involuzione, oppure uscire dal sistema con una rivoluzione; o riportare la vita all’arte, come ha fatto Pollock, o portare l’arte alla vita, ma non più sotto metafora.
Ora non sto a parlare dei singoli miei lavori nuovi, perché essi, essendo diversi gli uni dagli altri, richiederebbero una lunga lista di descrizioni dei motivi contingenti che li hanno determinati. Ma intendo parlare della visione che mi si è formata in conseguenza dei quadri specchianti a partire del 1964.
Su un muro del mio studio ho scritto tempo fa: “Bisogna prepararsi ad essere”. Ogni azione è in questo senso. Nulla è più contrario all’essere della tanto beneamata ambiguità in arte. Mettere due cose in rapporto per assistere alla rappresentazione del loro conflitto è l’ambiguità dell’arte; come facevano i Romani, che mettevano i leoni e i Cristiani nell’arena per godersi lo spettacolo. È primitiva l’allucinazione delle pietre focaie, una nuova civiltà non si può più organizzare usando due parti della mente dell’uomo come due pietre focaie. Nessuna scintilla deve scaturire da due cose, e tanto meno tra noi e noi stessi. Se rimaniamo sospesi tra noi e la nostra rappresentazione, noi siamo scintilla e conflitto.
L’errore è stato di attribuire una duplice capacità all’intelletto. L’intelletto pone le domande, ma non dà le risposte; si è invece sempre tentato di dare le risposte con lo stesso intelletto, come se il giorno potesse nel suo bel mezzo creare la notte, e viceversa. Il giorno e la notte si succedono, ma sono due cose distinte, di diversa natura. Si è creduto che il giorno e la notte fossero una cosa sola con due possibilità, e che l’intelletto fosse una cosa sola, ma con una sola possibilità; se esso pone le domande, bisogna fare un salto di fianco e usare un altro meccanismo per le risposte.
L’intelletto ora è frustrato perché ha dovuto tentare di assolvere a un duplice compito con continuo insuccesso, e gli altri meccanismi si sono atrofizzati. Nel mio nuovo lavoro ogni prodotto nasce da uno stimolo immediato dell’intelletto, ma esso non ha nessun carattere di definizione, giustificazione o risposta. Esso non mi rappresenta. Il lavoro o l’azione successiva sono il prodotto dello stimolo intellettuale o percettivo contingente e isolato nel momento successivo. Dopo ogni azione io faccio un passo di fianco e non procedo nella direzione raffigurata dal mio oggetto, perché non lo accetto come risposta. Una direzione prestabilita è contraria alla libertà dell’uomo; prestabilire vuoi dire impegnare il domani, vuoi dire che domani non sono libero, e attenersi a un’idea prestabilita vuoi dire riflettersi nel passato e privarsi della volontà libera.
L’univocità di linguaggio esige di essere prestabilita ed esige di attenervisi. Credere nel proprio linguaggio significa recitare la propria parte. Il linguaggio si pone come finzione tra noi e gli altri in una massa di individui che recitano se stessi e sono pronti ad essere comandati dai registi. Ci sono uomini intelligentissimi che, frustrati da un qualsiasi complesso personale, hanno creato su di esso il proprio personaggio e ci credono a tal punto da farlo recitare agli altri. Questi sono i registi della società, che mandano gli attori ad ammazzare o a farsi ammazzare dal male che loro hanno avvertito in se stessi. Tutto questo succede quando bastava fare un piccolo passo di fianco e l asciare i complessi proseguire i l ca mmi no da soli, senza strumentalizzarli.
Il mio modo di procedere ora è di fianco. Ogni mio prodotto è una mia liberazione e non una costruzione che vuole rappresentarmi; né io mi rifletto su di essi, né gli altri si possono riflettere su di me per mezzo dei miei lavori. Ogni mio prodotto è destinato a proseguire la sua strada da solo, senza trascinarmi con sé, perché io sono già attivo in un altro luogo. Il problema dell’attualità non ha più alcun senso nelle forme; non si tratta più di cambiare le forme lasciando intatto il sistema, ma di portare le forme intatte fuori dal sistema. Per far questo bisogna essere assolutamente liberi, e considerare l’attualità delle forme vuoi dire non essere liberi di considerare le forme del passato e, non possedendo le forme del futuro, la libertà nel sistema consiste nel poter fare una cosa sola.
Per me non ci sono forme più o meno attuali, tutte le forme sono disponibili, tutti i materiali, tutte le idee e tutti i mezzi. Il cammino dei passi di fianco porta fuori dal sistema che va diritto; non c’è più un traguardo davanti a noi, a cui arrivare per primo è merito e arrivare per ultimo è biasimo; la corsa sfrenata a questo punto astratto si concretizza in un sistema di battaglia fra gli individui e le masse. Procedendo di fianco, la corsa fra gli individui diventa parallela, perché ogni individuo procede individualmente, senza proiettarsi fuori di sé né in punti astratti né sugli altri. In questo cammino non ci sono i più bravi e i meno bravi, perché ognuno è quello che è e fa quello che fa; nessuno ha bisogno di fingere per mostrarsi migliore e diventa facilissimo comunicare senza strutture di linguaggio, perché è facile capire di ognuno chi è e come è. Per comunicare e per capire si può finalmente sviluppare il meccanismo della percezione nelle sue intere possibilità.
(Testo originariamente pubblicato in proprio dall’artista, Torino, 1967)