Michelangelo Pistoletto, viaggio alla scoperta dell’arte del maestro #15
Continua il percorso a tappe che mette in luce la cronistoria artistica di Pistoletto, tra opere, manifesti, mostre e progetti di ogni tempo. Questo episodio è dedicato al testo "Il giudizio universale a dimensione reale".

Nel 1980 Pistoletto trascorre un lungo periodo a Pescara. A settembre, assieme alla propria famiglia, realizza nella galleria Lucrezia De Domizio una mostra preceduta da un’azione – alla quale partecipano anche la gallerista e suo marito, il fotografo Bubi Durini – intitolata La famiglia – Il tavolo del giudizio. In tale occasione scrive il testo Il giudizio universale a dimensione reale.
“L’arte, la scienza e la religione erano una cosa sola per Michelangelo Buonarroti quando dipingeva il Giudizio Universale e progettava la cupola di San Pietro. Ma il suo Giudizio Universale era contenuto nel breve spazio del muro di una cappella e la cupola di San Pietro era la più alta realizzazione dell’ingegno umano di quel tempo. Oggi la cupola che rappresenta il più alto livello dell’ingegno umano si estende nello spazio tra le stelle, quindi il Giudizio Universale dell’arte deve essere ora a dimensione reale” (M. Pistoletto, Il giudizio universale a dimensione reale, Galleria Lucrezia De Domizio, Pescara 1980).

 


Il tavolo del giudizio, 1980
Azione, Galleria Lucrezia De Domizio, Pescara, 13 settembre 1980
Foto: B. Durini

Di seguito il testo:

Il discorso si riduce ai minimi termini.
Il discorso diventa chiaro, anzi chiarissimo: la tela dell’artista diventa uno specchio.
Nel 1961 inizia così l’opera del Giudizio, che non è più soltanto dell’artista, ma è della storia.
La prospettiva rinascimentale apriva la via diritta davanti all’artista, sia nel senso ottico che come progetto dell’era tecnologica.
Nel 1400 la prospettiva di Piero della Francesca, disegnata con esattezza matematica, immetteva praticamente nello spazio scientifico, cioè avviava la marcia in avanti del progresso moderno. Alterne vicende portavano i fatti interni ed esterni all’arte lungo il filo di una prospettiva comune, fino all’inizio del Novecento. In quel momento il progresso tecnico-scientifico si presentava con un tale margine di autonomia, da diventare una consistente barriera sul cammino dell’arte. E l’arte, come un proiettile dirompente che colpisce il bersaglio, esplodeva nella propria autonomia: era la nuova esaltante dimensione della libertà. Ma era una libertà piatta, spiaccicata contro un muro. I quadri di Mondrian ne sono uno degli esempi più chiari: i suoi quadri sono piatti come muri, non c’è più prospettiva in essi (solo la lunghezza del braccio che dipinge rimaneva a segnare la profondità).
Duchamp trasformava il progetto prospettico rinascimentale nella presenza di una realtà attuale, ma schiacciava il naso dello spettatore contro un vetro. Il cammino oltre il vetro era precluso dalla direzione unica del quadro. Il grande vetro, anche se incrinato, non era attraversabile. Esso era trasparente come un’idea, ma cadeva pesantemente come un muro anche con le parole dell’artista quando egli dichiarava la fine dell’arte.
Francis Bacon dipingeva più tardi un uomo col naso schiacciato e la voce soffocata contro il vetro, nella prigione di una gabbia trasparente.

Negli anni Cinquanta il problema della tela rimaneva quello di un muro insuperabile: Fontana bucava e tagliava la tela nel tentativo drammatico di guadagnare qualche centimetro di spazio in più, e anche Pollock metteva la tela sotto i piedi per avere, momentaneamente, l’illusione di rimuovere l’ostacolo frontale. Io stesso mi sono trovato, negli anni Cinquanta, a correre verso la tela per sfondarla con la testa.
Nel 1961, l’uomo dipinto sulla mia prima tela specchiante rappresentava me stesso nel punto zero dello spazio e, contemporaneamente, tutto lo spazio intorno all’uomo ridiventava percorribile. Realmente percorribile. L’avvenimento consisteva nel rovesciamento della prospettiva: il mondo che noi vediamo nello specchio sta alle nostre spalle, basta fare dietro-front e proseguire il cammino in quel verso.
Allontanandoci dallo specchio ci vediamo entrare nello specchio; si continua così la strada nel quadro, senza ostacoli e senza barriere, mentre ci si addentra nella vita.
Lo specchio è una risposta della storia ad una domanda che io ho fatto all’arte cercando me stesso.
Girando le spalle alla negazione dell’arte si passa all’affermazione dell’arte. Il rovesciamento è completo, cioè pratico e mentale. Naturalmente le implicazioni sono enormi, perché questo significa andare non solo in un territorio già edificato, ma anche verso un tempo già trascorso. Comunque è in questa direzione che l’arte ha trovato lo spazio per muovere i primi passi di un nuovo corso: le cose della vita non si ammucchiano più sul muro dell’arte, ma l’arte entra nella vita, mentre ad una ad una tutte le cose che non sono dell’arte stanno arrivando alla soglia dello specchio.

Ma nel ribaltamento del percorso la libertà diventa molto impegnativa. Si va sul passato come ad affermare le predizioni, cioè come se fossimo la metà mancante di un corpo preesistente che ci attende per formarsi interamente. Dunque davanti allo specchio si avvia la strada di quel Giudizio Universale che va verso le profezie e le illustrazioni del passato acquistando la dimensione reale. L’arte, la scienza e la religione erano una cosa sola per Michelangelo Buonarroti quando dipingeva il Giudizio Universale e progettava la cupola di San Pietro. Ma il suo Giudizio Universale era contenuto nel breve spazio del muro di una cappella e la cupola di San Pietro era la più alta realizzazione dell’ingegno umano di quel tempo.
Oggi la cupola che rappresenta il più alto livello dell’ingegno umano si estende nello spazio tra le stelle, quindi il Giudizio Universale dell’arte deve essere ora a dimensione reale.
L’arte ri-assume le sue prerogative che consistono non solo nella propria concentrazione, ma anche nell’uso di tutti i materiali, di tutti i linguaggi, e delle diverse discipline, che immette nella propria autonomia (acquisita, esteticamente, nel Novecento con le avanguardie storiche). Al fondo di questa autonomia, l’arte trova la propria radicalità. L’arte non può più esimersi dal manifestare la sua radicalità. Essa, come lo specchio, assorbe ogni cosa esistente e la restituisce al mondo sotto forma di rivelazione. Lo specchio metaforico della vita è diventato lo specchio reale: è il grande occhio che sta dietro ad ogni maschera così come è contornato da ogni corpo. La radicalità dell’arte è quest’occhio che si presenta ora in tutta la sua bruciante nudità. Per me l’occhio è lo specchio.

Al centro ora non c’è più un punto ma uno specchio. Non c’è più un punto lontano rappresentato dal dio delle religioni, ma uno specchio che ci rida la nostra immagine da vicino. E non è più un punto di vista prospettico che indica il raggiungimento del progresso tecnico-scientifico, ma è uno specchio che apre subito tutto lo spazio.
Lo specchio non è un punto, ma un territorio che può assumere qualsiasi dimensione e sfuggire a qualsiasi costrizione. Ed è su questo terreno che io riconosco il potere fondamentale e reale dell’arte.
Lo specchio diventa un territorio sostituendosi al punto, alla linea e a qualsiasi materiale che produca un segno.
Lo specchio ha la forma del suo taglio, questa forma è il disegno, intorno al disegno dello specchio nascono i segni, i volumi, crescono i muri e le decorazioni, si innalzano le cupole e partono i missili interstellari.
La fortezza è stata costruita intorno allo specchio, sul disegno dello specchio, per nascondere lo specchio. La fortezza della fede, nasconde la fortezza di un’altra fede che nasconde la fortezza di un’altra fede ma tutte nascondono lo specchio della fede nell’arte. Lo specchio che viene alla luce ribalta la fede nella fede nella fede nella fede fino a rispecchiare tutte le fedi.
La prima cosa ad andare al suo posto è l’arte che divide ciò che è dentro da ciò che è fuori. Si determina a quale forma di potere un’opera (sia creativa che critica) si riferisca, se e in quale limite questa tenda ad innalzare il muro che copre lo specchio.
Con Le ultime parole famose, nel 1967, esprimevo il concetto dell’Essere, indicando il cammino dei passi di fianco rispetto ad un potere individuato come massima tensione della conflittualità. Nei passi di fianco si sono incontrate le diverse schiere di persone che, spinte ai bordi della società da un’autonomia troppo grande del potere, intraprendevano la marcia verso la propria autonomia. Il rituale dello sterminio patriottico si è trasformato nel “sacrificio per giustizia”, gestito dal gruppo. Si è arrivati al momento in cui ognuno conquista il diritto di gestire il proprio “sacrificio di giustizia”; perciò il potere non sta più nel sacrificio degli altri e non è più avallabile dall’esempio sacrificale-simbolico di uno per tutti. Le strutture che organizzano primariamente il pensiero della società sono diventate sterili. E pur svuotate dei principi funzionali alla vita, rimangono pesantemente in piedi a schiacciare le radici che nutrono le qualità fondamentali della gente.

Nulla può fiorire da un albero secco, tranne il suo seme. Io pongo lo specchio come seme, come il battesimo di una fede che restituisce alla creatività il potere spirituale.
Le risposte alle prime domande sull’esistenza non possono più essere quelle pietrificate da millenni di storia; l’arte crea ora metodi che danno risposte molto più vicine ad ognuno di noi.
Nella rivendicazione individuale c’è la creatività che offre il riconoscimento a chi è stato negato da secoli e sempre promesso oltre la morte.
Nella creatività sta l’atto di giustizia, quindi il territorio dell’arte deve essere aperto per far procedere le possibilità creative di ciascuno verso la capacità di esprimerla. Io lavoro ora per tenere, ad ogni costo, aperto il varco dello specchio. Senza questo buco speculare l’arte viene spinta ai bordi da ogni altra forma di potere e ne diventa la decorazione, e in più, anche responsabile degli errori. Come in uno specchio frantumato ogni pezzo mantiene le proprietà del grande specchio, così ognuno di noi è una particolare proprietà dell’energia totale.

Questa si è frantumata per riconoscersi, come uno specchio si riflette nell’altro. E non dimentichiamo che gli occhi sono specchi che riflettono le cose, che la mente è lo specchio degli occhi e che le nostre azioni sono lo specchio della nostra mente. Lo spirito si forma e si esprime in questo ciclo. La creatività di ciascuno è un frammento speculare della creazione totale.
L’arte deve occupare il suo posto forando la crosta millenaria che sta in fondo allo stomaco della gente, crosta formata dalle risposte dogmatiche sull’esistenza, per mostrare che essa, l’arte, sta sotto quella crosta ed è come una miniera inesplorata a cui ognuno può attingere. Io come artista devo essere, oltre che produttore della mia opera, maestro di una ritualità creativa che sostituisca quella dogmatica. Nell’arte bisogna essere anche attivi e non si può soltanto credere.

Testo pubblicato nel catalogo della mostra “Michelangelo Pistoletto. Il tavolo del giudizio”, Galleria Lucrezia De Domizio, Pescara, settembre 1980.

 


Immagine di copertina: La famiglia, 1980
Azione, Galleria Lucrezia De Domizio, Pescara, 12 settembre 1980
Da sinistra: Lucrezia De Domizio, Bubi Durini, Michelangelo Pistoletto, Cristina Pistoletto,
Giorgio Ferraris, Maria Pioppi, Armona e Pietra Pistoletto
Foto: B. Durini.